BANGWANILLA
BHILLA
A
nord di Sheffield, in vetta a una collina, c’è un cannone. O
meglio, a guardar più d’appresso, non è nè una collina e nè un
cannone, ma una duna di carbone con in cima lo scivolo d’un
convogliatore. Il che, comunque, non deve scoraggiare dal vedere
nelle cose ciò che si vuoi vedere, anzi! E se questo “ciò”
dovesse mai essere un cannone, per un villaggio posto casualmente
nella sua traiettoria, questa potenziale insidia potrebbe sempre
sortire delle conseguenze. Chi tuttavia ha pratica, anche
superficiale, d’insediamenti in zone minerarie, sa che, da lontano,
essi appaiono, con i loro tetti a schiera bigi ed appuntiti, simili a
delle creste sdentate in groppa a un drago altrettanto decrepito e
fuligginoso. Ed è dunque sulla scorta di questa immagine, che la
misura della minaccia risulterebbe un tantino eccessiva. Ma, d’altro
verso, se s’accetta il punto di chi vede” un cannone in uno
scivolo, si può ben comprendere come persino uno scivolo da carbone
possa rappresentare un pericolo per qualsiasi povero diavolo di
villaggio che volesse atteggiarsi a drago, anche solo per un
malinteso senso delle proporzioni. In caso contrario gli opposti
punti di vista verrebbero reciprocamente ad elidersi, con buona pace
di qualunque osservatore e d’ogni tipo d’indagine.
Vivendo quindi in bilico fra le tesi di “apparire o essere in realtà”, gli abitanti di quel villaggio (che in effetti esiste) godevano del privilegio del dubbio molto più “acutamente” di qualsiasi filosofo, ove l’avverbio adombri il significato di sofferenza più che quello di mera speculazione. Ed è solo in rapporto a codesta scelta che si potrà discriminare fra le due tendenze con qualche successo, senza incorrere d’esprimersi a vanvera per tante pagine.
In tutti i modi, a ‘chè la “dolorosa reazione” avvenisse, occorreva si verificasse un evento, e l’evento, per la gente del villaggio, doveva assumere tale natura da fugare oii perplessità sulla sua ambigua funzione; diversamente lo scivolo sulla duna si sarebbe posto a scaricar cannonate, e chi allora avrebbe osato, dubbioso o meno, arrischiare d’infrangere l’unanimità?! Retorica a parte, uno lo si trova sempre, e Bangwanilla Bhilla era fra quegli eletti. modesto commerciante indù, immigrato da vent’anni, con una grande bottega ed un giro d’affari inversamente proporzionale alle ambizioni del negozio, aveva come clienti dei semplici minatori che non potevano, di fatto, arricchirlo. Ma a Bangwanilla,evidentemente, per definirsi prospero, bastavano tante scansìe colme di merce inutilizzata. E, daltronde, scapolo e privo di commessi, uno scambio più intenso, non avrebbe potuto nemmeno pensare di gestirlo, tanto gli valeva rifarsi col pragmatismo dei metri quadrati della sua bottega: ben 250! Tutti gli altri poveracci fuori! a rodersi col naso alle vetrine. Bangwanilla Bhilla, certi giorni, lo si vedeva sfilar su e giù, in rivista agli scaffali, solo ed impettito come un sergente dei Cepoys. E nel villaggio nessuno che azzardasse un: “Chi si contenta...” dal momento che, nel confronto, le loro case non superavano il terzo di quella metratura. Bangwanilla, autonomamente impegnato a realizzare il proprio karma, e ignaro d’influenzare quello altrui, procedeva con elegante noncuranza, direi persino con civetteria; e neppure ci si poteva appellare al colore della pelle per giustificarne l’invadenza, quando gli stessi pozzi di carbone cooperava— no durante la settimana a pareggiare le diverse sfumature con una tinta uguale per tutti. Ma ‘la festa, anzichè stemperarsi il corpo nella meditazione, Bangwanilla pareva ribadire il diritto alla diversità, tornando a dipingere e ridipingere rosa—confetto la facciata del suo negozio, mentre tutt’intorno la crosta delle abitazioni anneriva nello squallore. Sono atteggiamenti che, in buona o cattiva fede, farebbero sorgere dubbi anche a un santo; come non condividere dunque l’inquietudine dei compaesani nei suoi riguardi? Tuttavia Bangwanilla, nonostante la coerenza nel paradosso, era lungi ancora dall’impersonare la minaccia del cannone sulla collina, o almeno, sino a dopo quella fatidica notte...
e giacchè gli eventi, come i sogni, si riscontrano sempre a cose fatte, quella mattina, al risveglio, tutto il villaggio s’accorse d’essere stato irrorato da un liquido denso, grasso e giallognolo... Che da quelle parti piovesse spesso non era una novità, anzi, la cosa non sollevava il benché mini:io interesse. Che poi, in alcune parti del globo, piovesse addirittura sabbia del deserto od acido dalle ci— miniere, lo si poteva leggere tranquillamente sui giornali o vedere alla televisione, ma tutto s’esauriva in qualche piagnisteo sulle sorti dell’umanità. Che invece potesse verificarsi così a nord, lungi dal consueto pregiudizio meridionale, colse tutti di sorpresa piuttosto allarmati. Subito si congetturò di capziose correnti ascensionali, di stravolgimenti atmosferici dovuti alle tempeste magnetiche, alle centrali atomiche, agli esperimenti nucleari, al conseguente mutamento del clima che ribaltava l’orientamento dei venti, quando:
“dove tirasse il vento” rimaneva una delle poche certezze di stabilità su quell’isola. Ci fu persino chi addebitò il fenomeno all’allineamento dei pianeti in corso in quel periodo. Tutte ipotesi che, suscettibili di differenze, conservavano peraltro un certo quid d’attendibilità e, quel che più conta, una qualche singolare propensione ad esaudirsi in se stesse, favorendo di trascurarne altre magari più intriganti. A tanto conduceva, ormai, la comunanza psicologica di quegli abitanti se, fortunatamente per loro, non avessero potuto annoverare, in Bangwnilla Bhilla, l’ispirato profeta, il corifeo dell’apparente contraddizione. “Per me, è sterco...’ sentenziò appena messo fuori il piede “... diamine! non sentite che puzza?!”.’ Evitò d’aggiungere altro, tappandosi le narici. in verità, di puzza, non se ne sentiva, ma bastò a scatenare, lo stesso, un vespaio. E, con quell’odoroso messaggio in bocca, gl’insetti si sguinzagliarono per i vicoli, salendo e calando ogni rampa di scale, ronzando e zigzagando per i sottotetti e gli scantinati dei “pub”, dove neppure l’effluvio di quella notte avrebbe potuto scalzare l’aroma della birra scura, sollevando ovunque moti d’indignato disgusto. Dopodichè la morale collettiva s’evidenziò nella mozione d’ordine per bocca dell’assessore anziano Vellamere: “Che possa piovere anche latte cagliato od olio rancido passi, ma per nessun stramaledetto indù si deve o si dovrà accettare che qui cada, sia caduta o stia per cadere, dell’acqua di merda. E’ chiaro?!. Era chiaro per tutti e, quindi, presero a far finta di nulla. O meglio, non proprio di nulla, qualcosa per confondere le certezze continuarono a confidarsi, ma riguardava principalmente l’aspetto della bottega-confetto che, così butterata, pareva affetta da foruncolosi. Che potesse anche rivelarsi contagiosa? Bangwanilla, quasi presago, intanto non tralasciava di ridipingerla, incurante che la pioggia perdurasse a cadere regolare, di notte e di giorno, una o due volte ‘la settimana. Di conseguenza, quel colorato “distinguo”, non s’interrompeva quasi mai, impegnandolo a tempo pieno e non più solo ‘la domenica. Ma l’indù non dava seguo di dolersene. Del resto, per ripararsi durante il lavoro alla facciata, aveva escogitato di ripiegare all’insù le stecche di un grande ombrello azzurro, sicchè il liquame, evitando di ricolargli addosso, si raccoglieva nella conca cerata come lo zabaglione fumante in una ciotola. E la gente, vedendolo armeggiare alle pennellesse o, più semplicemente, passeggiare per il paese con quel paracqua rovesciato in testa, scuoteva le patacche dal proprio domandandosi fin dove sarebbe giunta l’improntitudine dello straniero. E la fanghiglia, intanto, s’accumulava viscida sull’asfalto. La Giunta (ed era la seconda volta che intervenivano le autorità) emise un’ordinanza che imponeva ai residenti d’arginare gli striminziti giardini avanti alle case, in modo che:
“... la terra delle aiuole, durante la brutta stagione, non smottasse sulla pubblica via”. Poi provvide a far sistemare delle passerelle di traverso ai vicoli, con il pretesto che la rete fognaria, ereditata dalla precedente Amministrazione, dovesse essere totalmente riappaltata e corretta. Ma il fatto che la parola: “merda” fosse puntigliosamente bandita in paese dall’ufficialità dei discorsi, non impediva che, fuori le mura, le notizie si propagassero. In breve, dalle Autorità delle contee limitrofe fu steso una specie di cordone sanitario intorno al villaggio, fatto di tanti piccoli divieti, pseudo proibizioni, definite eufemisticamente: “Consigli pratici per i forestieri” ove in parole povere s’ammoniva, non solo a non fermarsi, ma persino a transitare da quelle parti. Al punto che, ufficialmente, si chiese al “Miner’s Football Club’ di far disputare l’omonimo torneo di calcio in campo neutro per tutta la stagione. Si può immaginare con quale sarcasmo venissero accolti, dai tifosi avversi, i colori d’una tale squadra, per cui, le umiliazioni in serie, consigliarono di ritirarsi per quell’anno dalla competizione, fidando nella clemenza del cielo per quello a venire. Bangwanilla Bhilla non era certo un tifoso di calcio (nè, tanto meno, un rivoluzionario) eppure, con una sola parola al momento giusto, era riuscito ove persino gli Unni nell’ultimo conflitto avevano fallito, e cioè a “stoppare” una delle più gloriose tradizioni dell’isola. Tuttavia, se in quel frangente lo spirito della comunità aveva toccato il fondo, dall’altra si doveva registrare, imprevedibilmente, prima l’ascesa e poi il rigoglio della coltura d’ortensia (liydrangea hortensia). Non che quelle piante nel nord fossero considerate alla stregua di persone giuridiche ma, data la dif fusione in ogni aiuola e valutando il numero dei giardini, un posto di rilievo nella gerarchia sociale dovevano pur averlo; specie con una qualità, quella azzurra che, da sola, legittimava quel poco di colorito funebre sulle guance delle case. Un poco passi, ma che, da livido, quell’incarnato si fosse fatto d’improvviso giallo sgargiante, pareva una trasformazione un secondo troppo rapida per non essere sospetta; senza contare le dimensioni del maquillage che, da normale corolla, s’era dilatato alla misura d’un girasole. “Troppa acqua, quest’anno... balbettò un benpensante guardando desolato la sua pianta. “Troppo concime...” gli fece eco Bangwanilla indicando, con un sorriso disarmato, il cielo caliginoso, prima di congiungere le mani nell’inchino e defilarsi in bottega. •qualcuno, non senza ragione, pronosticò che quella peste avrebbe infettato le istituzioni una dopo l’altra. In consiglio comunale Bangvvanilla non vi aveva accesso, ma le sue pragmatiche sortite ormai circolavano quasi fossero all’ordine del giorno, e una di queste riguardava il possibile beneficio che, dagli eccessi di vitalità delle ortensie, si sarebbe potuto ricavare. “... e dunque, visto come vanno le cose...” aveva suggerito Bangwanilla: “...perchè non “firmare” quella specifica qualità col nome del villaggio, farne una specie selezionata, ed esportarla baldanzosamente oltre i confini?”. “Esportare quei fiori di merda col... col nostro nome??” gracchiò l’assessore anziano Vellamere sporgendosi pericolosamente dallo scranno:
“.... ma è inaudito! Piuttosto si esporti quel fottuto derviscio al suo paese in una botte di chiodi!”. L’assessore giovane Iranmong gli ribattè che, pur nell’apparente provocazione, qualcosa della proposta si poteva utilizzare, sostituendo, ad esempio, il nome del villaggio con quello dell’indù, ed un’ortensia “Bangwanilla Bhilla” gli sembrava tutto sommato un’appropriata risposta all’impertinenza. Si mise ai voti e l’inaudito passò. Mentre l’assessore anziano Vellamere si rifugiava al “pub” a smaltire lo scorno, attorno a lui il resto degli avventori brindava alla possibilità d’integrare, la vita grama in miniera, con la più rosea attività del floricultore e, nella prospettiva del guadagno, persino di riscattarla. “Scambiare un onorato mestiere per quattro soldi di merda...” ammoniva intanto l’assessore anziano:
“... vale quanto rimangiarsi l’identità... e poi, che uomini diventereste con quelle froce d’ortensie appese agli orecchi?!” ed ammiccava all’indù. ìa la maggioranza, bene o male, legifera e, poco a poco, nonostante i mu.i, ebbe inizio al villaggio una sorta di riconversione a dispetto della minacciata virilità. Gruppi di minatori, prima esigui poi, sulla scorta dei risultati, man mano più numerosi e intraprendenti, mutarono dall’oggi al domani colore di pelle abbandonando i pozzi per l’aria aperta. Di fatto la coltivazione delle ortensie—girasole si spandeva sulla macchia d’olio e, come in Provenza, già qualche improvvisato Van Gogh si accingeva a riprendere la scena con in testa il tipico copricapo, adottato dai floricultori, sulla falsariga dell’ombrello di Bangwanilla: tesa larga rivolta all’insù con banda di scolo sul retro. E alcuni eletti di loro, più audaci nella sperimentazione, già teorizzavano di lasciare la tela alle intemperie: ‘... onde il soggetto dipinto acquisisca un bagno di salutare espressività”. In effetti la pioggia continuava ad “ammucchiarsi” fino a sfiorare i davanzali a piano terra, e altro ci voleva che recintare i giardini a suon d’ordinanze! Bangwanilla, dal suo ambito, non trascurava di scavare e sgomberare le aiuole e di ridipingere la sua facciata, senza curarsi del tumulo che gli cresceva addosso e da cui emergevano, provvisoriamente, solo l’ultimo piano ed il tetto della bottega. A un primo sguardo, l’esito era pari a quello d’uno “stupa” rosa—confetto su di una collina dissenterica, punteggiata da croci runiche. Se, tuttavia, grazie all’indù, sulla cresta del drago era spuntato tua dente d’oro, al fenomeno della pioggia si doveva imputare la dissolvenza del resto dello scheletro. In consiglio comunale, infatti, proprio in cuei giorni, si era pervenuti alla contrastata risoluzione d’evacuare il villaggio sacrificandolo all’esuberanza delle ortensie, e di ricostruirne uno nuovo (ricorrendo al fondo Calamità nazionale) più lontano e al riparo.., fuori di portata del cannone?? La traiettoria, non poteva sfuggire a nessuno, era quella dello scivolo, ma nessuno in paese avrebbe accettato ormai di precludersi sia il tronco che la linfa del nuovo benessere; e si optò , quindi, nel dubbio, di tagliare con le radici anzichè chiudere con la miniera e lo scivolo sulla duna.naturalmente tutti, in consiglio, s’erano ben guardati dall’ammettere, l’un l’altro, questa relazione. “Se la pioggia continua a cadere...” generalizzarono: “... non spetta a noi definirne le cause. A noi, come amministrazione, tocca solo regolarci di conseguenza”. Ragionamento ineccepibile, suffragato inoltre dall’evidenza che lo scivolo d’un convogliatore non poteva funzionare da cannone con l’innesco d’una parola magica. Bangwanilla (che non era un mago) non si dava pensiero di rimaner isolato sulla collina con la sua versione e, instancabile, scavava il solco che lo separava dagli altri, o per meglio dire, delegava alla pioggia il compito d’approfondirlo. Non abbandonando la sua bottega, in breve, egli scomparve in basso con essa, impegnato com’era a liberarne le fondamenta dal concime. Ora n’emergeva, tramite una scala a pioli, solo per svuotare la gerla di cerata azzurra che si caricava sulle spalle, ed è forse nell’apparente incongruenza fra l’accumulo del liquame ed il suo sgombero, che ne sortiva quella specie di bradisismo negativo della costruzione. L’assessore anziano Vellamere, che aveva rischiato le coronarie per venire a constatare di persona, sporgendosi sul baratro, si sentì apostrofare da Bangwanilla che, per “capire”, non bastava risalire la collina, ma occorresse calarsi al fondo con lui. Imprecando, l’assessore lò piantò in asso; e del resto più nessuno, da tempo, scendeva nel pozzo ad acquistare merce imbalsamata sulle scansìe, e neppure l’indù l’avrebbe preteso, quando persino lui, di tanto in tanto, era costretto a rifornirsi con un po' di riso al nuovo villaggio per sopravvivere. Qui, fra decine di negozi inghirlandati d’ortensie, s’aggirava gradito come un cane in chiesa, rispondendo ai rari cenni di saluto col consueto sorriso, senza dar peso alla circostanza che spesso, al suo passaggio, quei pochi ben educati arricciassero ostentatamente il naso. Nonostante non olezzasse affatto, Bangwanilla, la puzza, l’aveva denunciata, ed era naturale che, arrivando da lassù, se la portasse appresso. Non lo era altrettanto, invece, che la sentisse chi la negava per principio, fosse stato pure per necessità. Un’anima più dogmatica delle altre, gli fece recapitare l’ingiunzione di sottoporsi alla doccia pubblica, impiantata per i floricultori alle porte del villaggio. Lui rispose, cortese ma risoluto, che le abluzioni l’eseguiva puntuale al tramonto davanti a Krishna e (qui calcò sulle parole) che, se volevano decontaminarsi davvero, mettessero prima, e una volta per sempre, la museruola a quell’osceno cannone sulla collina. Poi chiuse bocca e bottega e non uscì più. Però l’innesco aveva funzionato ed il petardo deflagrò come una mina. Investendo le case, le divise in fazioni. Sotto l’onda d’urto, le varie corporazioni, vedendo fondersi in un “unico macroscopico” tutte le incertezze fino ad allora accumulate, e presaghe di finirne schiacciate con i loro interessi, cercarono di sottrarsi alla responsabilità di decidere a quale soluzione dare la precedenza, mentre lo spauracchio sulla duna brandeggiava minaccioso sulla più aspra e frantumata polemica degli ultimi armi. Per salvare il salvabile e ripristinare una parvenza c’unanimità, l’assessore anziano Vellamere, spalleggiato dal Pastore, reverendo Lorrisdale, propose drammaticamente di dare, una volta per tutte, un corpo alle paure ed una solidale giustificazione alla mossa per sconfiggerle. Convocato il consiglio straordinario e aggregata la maggioranza più numerosa della loro storia, si pervenne, bene o male, ad. un’unica “delibera. Poi, sull’esempio del passato, l’esito del voto che ne seguì fu tenuto rigorosamente segreto, ‘chè nessuno venisse a dubitare, in paese, del proprio rappresentante. Anzi, a sorte, si giunse a designare un solo membro della giunta a prenderne visione e ad agire senz’altro limite che il proprio arbitrio, tenendo deliberatamente all’oscuro l’assermblea, sia del momento che del modo d’intervenire. In sostanza, una delega in bianco per uno sporco lavoro nero. L’incaricato tirò un sospiro di rassegnazione, e si preparò ad assolvere il mandato nell’assoluto riserbo...
Una notte, non a caso, di liquame torrenziale, quattro potenti scavatrici color del fumo, con quattro incappucciati ai comandi, cingolarono la collina delle ortensie dai quattro punti cardinali. Giunte in prossimità della vetta ad insegne coperte e luci spente, le accesero all’unisono sull’obiettivo, attaccando e sospingendo nel contempo le tonnellate di concime, accumulate da Bangwanilla, oltre l’orlo della voragine, e precipitandole in basso sul tetto della bottega. Nell’arco di pochi minuti il pozzo fu colmo e la contraddizione sanata. Poi, altrettanto rapidamente, sferragliarono a valle dileguandosi nel buio...
L’indomani all’alba si fece circolare la voce che Bangwanilla era rimasto vittima di una frana colossale, con tutte le sue cianfrusaglie. Per la cronaca, nessuno manifestò perplessità. Già alle nove di mattino un lungo serpente di curiosi si snodava sul golgota. Con in testa l’assessore anziano Vellamere che, ansimando, sembrava rallentare a bella posta l’andatura. Verso il mezzodì, sempre sotto un diluvio unto e pesante, il Pastore reverendo Morrisdale, il medico Tarren e l’autorità di polizia Stuart, riuniti in consulto, constatarono l’inutilità di poter recare in tempo qualsiasi aiuto al malcapitato. E, dopo le orazioni e i rilievi di rito, passarono le consegne all’assessore Vellamere che comunicò agli astanti d’interpretarne il pensiero sancendo che quel cocuzzolo restasse la dimora definitiva di Bangwanilla, e che non lo si dovesse disturbare oltre con sacrileghe riesumazioni. Quindi, chiuso l’ombrello, si piegò, non senza fatica, a trapiantare sul concime un virgulto d’ortensia, imitato dagli altri notabili e, via via, dal resto dei presenti. Alle sette di sera ebbe termine anche il pellegrinaggio e, ad una parte del nuovo insediamento, parve scemare persino l’intensità della pioggia...
All’episodio di quella notte si ebbe una coda istituzionale così connotata: ogni ente, concorso o manifestazione pubblica, dalla squadra di calcio (fiore giallo su fondo nero) al torneo regionale; dal teatro comunale alle recite della filodrammatica; dalle fiere alle esposizioni d’ortensie, alla banda musicale, ai cimenti folkloristici; dall’asilo alla scuola, all'ospizio dei vecchi; dal nuovo villaggio sino alla miniera a mezzo servizio, TUTTO in paese, compresi i “pub”, venne ribattezzato o intitolato al personaggio emblematico di Bangwanilla. Qualche maligno insinuò che fosse un modo per esorcizzarne la memoria, qualcun altro che fosse piuttosto un rito per propiziarsela, in ogni caso l’assessore anziano Vellamere ed il reverendo Morrisdale avevano deciso, a suo tempo, e per il bene della maggioranza, di creare a forza una leggenda anzichè affrontarne una scaturita dalle circostanze. E vediamone gli sviluppi. tutt’oggi, a nord di Sheffield, ci sono due colline che si fronteggiano: una nera di carbone e una gialla d’ortensie. A guardar più d’appresso sulla prima c’è un cannone e sull’altra piove merda. Ma, in mezzo, c’è un drago variopinto il cui cranio talvolta matura il dubbio che un fachiro sia sul punto d’uscire dal tumulo pronto a ribaltare, con un sorriso, la fondatezza di questa osservazione. Perciò: floricultori, occhio ai “girasoli”! ‘chè, senza preavviso, potrebbero tornare, in barba a tutte le aspettative, quanto meno a colorarsi d’azzurro...
Vivendo quindi in bilico fra le tesi di “apparire o essere in realtà”, gli abitanti di quel villaggio (che in effetti esiste) godevano del privilegio del dubbio molto più “acutamente” di qualsiasi filosofo, ove l’avverbio adombri il significato di sofferenza più che quello di mera speculazione. Ed è solo in rapporto a codesta scelta che si potrà discriminare fra le due tendenze con qualche successo, senza incorrere d’esprimersi a vanvera per tante pagine.
In tutti i modi, a ‘chè la “dolorosa reazione” avvenisse, occorreva si verificasse un evento, e l’evento, per la gente del villaggio, doveva assumere tale natura da fugare oii perplessità sulla sua ambigua funzione; diversamente lo scivolo sulla duna si sarebbe posto a scaricar cannonate, e chi allora avrebbe osato, dubbioso o meno, arrischiare d’infrangere l’unanimità?! Retorica a parte, uno lo si trova sempre, e Bangwanilla Bhilla era fra quegli eletti. modesto commerciante indù, immigrato da vent’anni, con una grande bottega ed un giro d’affari inversamente proporzionale alle ambizioni del negozio, aveva come clienti dei semplici minatori che non potevano, di fatto, arricchirlo. Ma a Bangwanilla,evidentemente, per definirsi prospero, bastavano tante scansìe colme di merce inutilizzata. E, daltronde, scapolo e privo di commessi, uno scambio più intenso, non avrebbe potuto nemmeno pensare di gestirlo, tanto gli valeva rifarsi col pragmatismo dei metri quadrati della sua bottega: ben 250! Tutti gli altri poveracci fuori! a rodersi col naso alle vetrine. Bangwanilla Bhilla, certi giorni, lo si vedeva sfilar su e giù, in rivista agli scaffali, solo ed impettito come un sergente dei Cepoys. E nel villaggio nessuno che azzardasse un: “Chi si contenta...” dal momento che, nel confronto, le loro case non superavano il terzo di quella metratura. Bangwanilla, autonomamente impegnato a realizzare il proprio karma, e ignaro d’influenzare quello altrui, procedeva con elegante noncuranza, direi persino con civetteria; e neppure ci si poteva appellare al colore della pelle per giustificarne l’invadenza, quando gli stessi pozzi di carbone cooperava— no durante la settimana a pareggiare le diverse sfumature con una tinta uguale per tutti. Ma ‘la festa, anzichè stemperarsi il corpo nella meditazione, Bangwanilla pareva ribadire il diritto alla diversità, tornando a dipingere e ridipingere rosa—confetto la facciata del suo negozio, mentre tutt’intorno la crosta delle abitazioni anneriva nello squallore. Sono atteggiamenti che, in buona o cattiva fede, farebbero sorgere dubbi anche a un santo; come non condividere dunque l’inquietudine dei compaesani nei suoi riguardi? Tuttavia Bangwanilla, nonostante la coerenza nel paradosso, era lungi ancora dall’impersonare la minaccia del cannone sulla collina, o almeno, sino a dopo quella fatidica notte...
e giacchè gli eventi, come i sogni, si riscontrano sempre a cose fatte, quella mattina, al risveglio, tutto il villaggio s’accorse d’essere stato irrorato da un liquido denso, grasso e giallognolo... Che da quelle parti piovesse spesso non era una novità, anzi, la cosa non sollevava il benché mini:io interesse. Che poi, in alcune parti del globo, piovesse addirittura sabbia del deserto od acido dalle ci— miniere, lo si poteva leggere tranquillamente sui giornali o vedere alla televisione, ma tutto s’esauriva in qualche piagnisteo sulle sorti dell’umanità. Che invece potesse verificarsi così a nord, lungi dal consueto pregiudizio meridionale, colse tutti di sorpresa piuttosto allarmati. Subito si congetturò di capziose correnti ascensionali, di stravolgimenti atmosferici dovuti alle tempeste magnetiche, alle centrali atomiche, agli esperimenti nucleari, al conseguente mutamento del clima che ribaltava l’orientamento dei venti, quando:
“dove tirasse il vento” rimaneva una delle poche certezze di stabilità su quell’isola. Ci fu persino chi addebitò il fenomeno all’allineamento dei pianeti in corso in quel periodo. Tutte ipotesi che, suscettibili di differenze, conservavano peraltro un certo quid d’attendibilità e, quel che più conta, una qualche singolare propensione ad esaudirsi in se stesse, favorendo di trascurarne altre magari più intriganti. A tanto conduceva, ormai, la comunanza psicologica di quegli abitanti se, fortunatamente per loro, non avessero potuto annoverare, in Bangwnilla Bhilla, l’ispirato profeta, il corifeo dell’apparente contraddizione. “Per me, è sterco...’ sentenziò appena messo fuori il piede “... diamine! non sentite che puzza?!”.’ Evitò d’aggiungere altro, tappandosi le narici. in verità, di puzza, non se ne sentiva, ma bastò a scatenare, lo stesso, un vespaio. E, con quell’odoroso messaggio in bocca, gl’insetti si sguinzagliarono per i vicoli, salendo e calando ogni rampa di scale, ronzando e zigzagando per i sottotetti e gli scantinati dei “pub”, dove neppure l’effluvio di quella notte avrebbe potuto scalzare l’aroma della birra scura, sollevando ovunque moti d’indignato disgusto. Dopodichè la morale collettiva s’evidenziò nella mozione d’ordine per bocca dell’assessore anziano Vellamere: “Che possa piovere anche latte cagliato od olio rancido passi, ma per nessun stramaledetto indù si deve o si dovrà accettare che qui cada, sia caduta o stia per cadere, dell’acqua di merda. E’ chiaro?!. Era chiaro per tutti e, quindi, presero a far finta di nulla. O meglio, non proprio di nulla, qualcosa per confondere le certezze continuarono a confidarsi, ma riguardava principalmente l’aspetto della bottega-confetto che, così butterata, pareva affetta da foruncolosi. Che potesse anche rivelarsi contagiosa? Bangwanilla, quasi presago, intanto non tralasciava di ridipingerla, incurante che la pioggia perdurasse a cadere regolare, di notte e di giorno, una o due volte ‘la settimana. Di conseguenza, quel colorato “distinguo”, non s’interrompeva quasi mai, impegnandolo a tempo pieno e non più solo ‘la domenica. Ma l’indù non dava seguo di dolersene. Del resto, per ripararsi durante il lavoro alla facciata, aveva escogitato di ripiegare all’insù le stecche di un grande ombrello azzurro, sicchè il liquame, evitando di ricolargli addosso, si raccoglieva nella conca cerata come lo zabaglione fumante in una ciotola. E la gente, vedendolo armeggiare alle pennellesse o, più semplicemente, passeggiare per il paese con quel paracqua rovesciato in testa, scuoteva le patacche dal proprio domandandosi fin dove sarebbe giunta l’improntitudine dello straniero. E la fanghiglia, intanto, s’accumulava viscida sull’asfalto. La Giunta (ed era la seconda volta che intervenivano le autorità) emise un’ordinanza che imponeva ai residenti d’arginare gli striminziti giardini avanti alle case, in modo che:
“... la terra delle aiuole, durante la brutta stagione, non smottasse sulla pubblica via”. Poi provvide a far sistemare delle passerelle di traverso ai vicoli, con il pretesto che la rete fognaria, ereditata dalla precedente Amministrazione, dovesse essere totalmente riappaltata e corretta. Ma il fatto che la parola: “merda” fosse puntigliosamente bandita in paese dall’ufficialità dei discorsi, non impediva che, fuori le mura, le notizie si propagassero. In breve, dalle Autorità delle contee limitrofe fu steso una specie di cordone sanitario intorno al villaggio, fatto di tanti piccoli divieti, pseudo proibizioni, definite eufemisticamente: “Consigli pratici per i forestieri” ove in parole povere s’ammoniva, non solo a non fermarsi, ma persino a transitare da quelle parti. Al punto che, ufficialmente, si chiese al “Miner’s Football Club’ di far disputare l’omonimo torneo di calcio in campo neutro per tutta la stagione. Si può immaginare con quale sarcasmo venissero accolti, dai tifosi avversi, i colori d’una tale squadra, per cui, le umiliazioni in serie, consigliarono di ritirarsi per quell’anno dalla competizione, fidando nella clemenza del cielo per quello a venire. Bangwanilla Bhilla non era certo un tifoso di calcio (nè, tanto meno, un rivoluzionario) eppure, con una sola parola al momento giusto, era riuscito ove persino gli Unni nell’ultimo conflitto avevano fallito, e cioè a “stoppare” una delle più gloriose tradizioni dell’isola. Tuttavia, se in quel frangente lo spirito della comunità aveva toccato il fondo, dall’altra si doveva registrare, imprevedibilmente, prima l’ascesa e poi il rigoglio della coltura d’ortensia (liydrangea hortensia). Non che quelle piante nel nord fossero considerate alla stregua di persone giuridiche ma, data la dif fusione in ogni aiuola e valutando il numero dei giardini, un posto di rilievo nella gerarchia sociale dovevano pur averlo; specie con una qualità, quella azzurra che, da sola, legittimava quel poco di colorito funebre sulle guance delle case. Un poco passi, ma che, da livido, quell’incarnato si fosse fatto d’improvviso giallo sgargiante, pareva una trasformazione un secondo troppo rapida per non essere sospetta; senza contare le dimensioni del maquillage che, da normale corolla, s’era dilatato alla misura d’un girasole. “Troppa acqua, quest’anno... balbettò un benpensante guardando desolato la sua pianta. “Troppo concime...” gli fece eco Bangwanilla indicando, con un sorriso disarmato, il cielo caliginoso, prima di congiungere le mani nell’inchino e defilarsi in bottega. •qualcuno, non senza ragione, pronosticò che quella peste avrebbe infettato le istituzioni una dopo l’altra. In consiglio comunale Bangvvanilla non vi aveva accesso, ma le sue pragmatiche sortite ormai circolavano quasi fossero all’ordine del giorno, e una di queste riguardava il possibile beneficio che, dagli eccessi di vitalità delle ortensie, si sarebbe potuto ricavare. “... e dunque, visto come vanno le cose...” aveva suggerito Bangwanilla: “...perchè non “firmare” quella specifica qualità col nome del villaggio, farne una specie selezionata, ed esportarla baldanzosamente oltre i confini?”. “Esportare quei fiori di merda col... col nostro nome??” gracchiò l’assessore anziano Vellamere sporgendosi pericolosamente dallo scranno:
“.... ma è inaudito! Piuttosto si esporti quel fottuto derviscio al suo paese in una botte di chiodi!”. L’assessore giovane Iranmong gli ribattè che, pur nell’apparente provocazione, qualcosa della proposta si poteva utilizzare, sostituendo, ad esempio, il nome del villaggio con quello dell’indù, ed un’ortensia “Bangwanilla Bhilla” gli sembrava tutto sommato un’appropriata risposta all’impertinenza. Si mise ai voti e l’inaudito passò. Mentre l’assessore anziano Vellamere si rifugiava al “pub” a smaltire lo scorno, attorno a lui il resto degli avventori brindava alla possibilità d’integrare, la vita grama in miniera, con la più rosea attività del floricultore e, nella prospettiva del guadagno, persino di riscattarla. “Scambiare un onorato mestiere per quattro soldi di merda...” ammoniva intanto l’assessore anziano:
“... vale quanto rimangiarsi l’identità... e poi, che uomini diventereste con quelle froce d’ortensie appese agli orecchi?!” ed ammiccava all’indù. ìa la maggioranza, bene o male, legifera e, poco a poco, nonostante i mu.i, ebbe inizio al villaggio una sorta di riconversione a dispetto della minacciata virilità. Gruppi di minatori, prima esigui poi, sulla scorta dei risultati, man mano più numerosi e intraprendenti, mutarono dall’oggi al domani colore di pelle abbandonando i pozzi per l’aria aperta. Di fatto la coltivazione delle ortensie—girasole si spandeva sulla macchia d’olio e, come in Provenza, già qualche improvvisato Van Gogh si accingeva a riprendere la scena con in testa il tipico copricapo, adottato dai floricultori, sulla falsariga dell’ombrello di Bangwanilla: tesa larga rivolta all’insù con banda di scolo sul retro. E alcuni eletti di loro, più audaci nella sperimentazione, già teorizzavano di lasciare la tela alle intemperie: ‘... onde il soggetto dipinto acquisisca un bagno di salutare espressività”. In effetti la pioggia continuava ad “ammucchiarsi” fino a sfiorare i davanzali a piano terra, e altro ci voleva che recintare i giardini a suon d’ordinanze! Bangwanilla, dal suo ambito, non trascurava di scavare e sgomberare le aiuole e di ridipingere la sua facciata, senza curarsi del tumulo che gli cresceva addosso e da cui emergevano, provvisoriamente, solo l’ultimo piano ed il tetto della bottega. A un primo sguardo, l’esito era pari a quello d’uno “stupa” rosa—confetto su di una collina dissenterica, punteggiata da croci runiche. Se, tuttavia, grazie all’indù, sulla cresta del drago era spuntato tua dente d’oro, al fenomeno della pioggia si doveva imputare la dissolvenza del resto dello scheletro. In consiglio comunale, infatti, proprio in cuei giorni, si era pervenuti alla contrastata risoluzione d’evacuare il villaggio sacrificandolo all’esuberanza delle ortensie, e di ricostruirne uno nuovo (ricorrendo al fondo Calamità nazionale) più lontano e al riparo.., fuori di portata del cannone?? La traiettoria, non poteva sfuggire a nessuno, era quella dello scivolo, ma nessuno in paese avrebbe accettato ormai di precludersi sia il tronco che la linfa del nuovo benessere; e si optò , quindi, nel dubbio, di tagliare con le radici anzichè chiudere con la miniera e lo scivolo sulla duna.naturalmente tutti, in consiglio, s’erano ben guardati dall’ammettere, l’un l’altro, questa relazione. “Se la pioggia continua a cadere...” generalizzarono: “... non spetta a noi definirne le cause. A noi, come amministrazione, tocca solo regolarci di conseguenza”. Ragionamento ineccepibile, suffragato inoltre dall’evidenza che lo scivolo d’un convogliatore non poteva funzionare da cannone con l’innesco d’una parola magica. Bangwanilla (che non era un mago) non si dava pensiero di rimaner isolato sulla collina con la sua versione e, instancabile, scavava il solco che lo separava dagli altri, o per meglio dire, delegava alla pioggia il compito d’approfondirlo. Non abbandonando la sua bottega, in breve, egli scomparve in basso con essa, impegnato com’era a liberarne le fondamenta dal concime. Ora n’emergeva, tramite una scala a pioli, solo per svuotare la gerla di cerata azzurra che si caricava sulle spalle, ed è forse nell’apparente incongruenza fra l’accumulo del liquame ed il suo sgombero, che ne sortiva quella specie di bradisismo negativo della costruzione. L’assessore anziano Vellamere, che aveva rischiato le coronarie per venire a constatare di persona, sporgendosi sul baratro, si sentì apostrofare da Bangwanilla che, per “capire”, non bastava risalire la collina, ma occorresse calarsi al fondo con lui. Imprecando, l’assessore lò piantò in asso; e del resto più nessuno, da tempo, scendeva nel pozzo ad acquistare merce imbalsamata sulle scansìe, e neppure l’indù l’avrebbe preteso, quando persino lui, di tanto in tanto, era costretto a rifornirsi con un po' di riso al nuovo villaggio per sopravvivere. Qui, fra decine di negozi inghirlandati d’ortensie, s’aggirava gradito come un cane in chiesa, rispondendo ai rari cenni di saluto col consueto sorriso, senza dar peso alla circostanza che spesso, al suo passaggio, quei pochi ben educati arricciassero ostentatamente il naso. Nonostante non olezzasse affatto, Bangwanilla, la puzza, l’aveva denunciata, ed era naturale che, arrivando da lassù, se la portasse appresso. Non lo era altrettanto, invece, che la sentisse chi la negava per principio, fosse stato pure per necessità. Un’anima più dogmatica delle altre, gli fece recapitare l’ingiunzione di sottoporsi alla doccia pubblica, impiantata per i floricultori alle porte del villaggio. Lui rispose, cortese ma risoluto, che le abluzioni l’eseguiva puntuale al tramonto davanti a Krishna e (qui calcò sulle parole) che, se volevano decontaminarsi davvero, mettessero prima, e una volta per sempre, la museruola a quell’osceno cannone sulla collina. Poi chiuse bocca e bottega e non uscì più. Però l’innesco aveva funzionato ed il petardo deflagrò come una mina. Investendo le case, le divise in fazioni. Sotto l’onda d’urto, le varie corporazioni, vedendo fondersi in un “unico macroscopico” tutte le incertezze fino ad allora accumulate, e presaghe di finirne schiacciate con i loro interessi, cercarono di sottrarsi alla responsabilità di decidere a quale soluzione dare la precedenza, mentre lo spauracchio sulla duna brandeggiava minaccioso sulla più aspra e frantumata polemica degli ultimi armi. Per salvare il salvabile e ripristinare una parvenza c’unanimità, l’assessore anziano Vellamere, spalleggiato dal Pastore, reverendo Lorrisdale, propose drammaticamente di dare, una volta per tutte, un corpo alle paure ed una solidale giustificazione alla mossa per sconfiggerle. Convocato il consiglio straordinario e aggregata la maggioranza più numerosa della loro storia, si pervenne, bene o male, ad. un’unica “delibera. Poi, sull’esempio del passato, l’esito del voto che ne seguì fu tenuto rigorosamente segreto, ‘chè nessuno venisse a dubitare, in paese, del proprio rappresentante. Anzi, a sorte, si giunse a designare un solo membro della giunta a prenderne visione e ad agire senz’altro limite che il proprio arbitrio, tenendo deliberatamente all’oscuro l’assermblea, sia del momento che del modo d’intervenire. In sostanza, una delega in bianco per uno sporco lavoro nero. L’incaricato tirò un sospiro di rassegnazione, e si preparò ad assolvere il mandato nell’assoluto riserbo...
Una notte, non a caso, di liquame torrenziale, quattro potenti scavatrici color del fumo, con quattro incappucciati ai comandi, cingolarono la collina delle ortensie dai quattro punti cardinali. Giunte in prossimità della vetta ad insegne coperte e luci spente, le accesero all’unisono sull’obiettivo, attaccando e sospingendo nel contempo le tonnellate di concime, accumulate da Bangwanilla, oltre l’orlo della voragine, e precipitandole in basso sul tetto della bottega. Nell’arco di pochi minuti il pozzo fu colmo e la contraddizione sanata. Poi, altrettanto rapidamente, sferragliarono a valle dileguandosi nel buio...
L’indomani all’alba si fece circolare la voce che Bangwanilla era rimasto vittima di una frana colossale, con tutte le sue cianfrusaglie. Per la cronaca, nessuno manifestò perplessità. Già alle nove di mattino un lungo serpente di curiosi si snodava sul golgota. Con in testa l’assessore anziano Vellamere che, ansimando, sembrava rallentare a bella posta l’andatura. Verso il mezzodì, sempre sotto un diluvio unto e pesante, il Pastore reverendo Morrisdale, il medico Tarren e l’autorità di polizia Stuart, riuniti in consulto, constatarono l’inutilità di poter recare in tempo qualsiasi aiuto al malcapitato. E, dopo le orazioni e i rilievi di rito, passarono le consegne all’assessore Vellamere che comunicò agli astanti d’interpretarne il pensiero sancendo che quel cocuzzolo restasse la dimora definitiva di Bangwanilla, e che non lo si dovesse disturbare oltre con sacrileghe riesumazioni. Quindi, chiuso l’ombrello, si piegò, non senza fatica, a trapiantare sul concime un virgulto d’ortensia, imitato dagli altri notabili e, via via, dal resto dei presenti. Alle sette di sera ebbe termine anche il pellegrinaggio e, ad una parte del nuovo insediamento, parve scemare persino l’intensità della pioggia...
All’episodio di quella notte si ebbe una coda istituzionale così connotata: ogni ente, concorso o manifestazione pubblica, dalla squadra di calcio (fiore giallo su fondo nero) al torneo regionale; dal teatro comunale alle recite della filodrammatica; dalle fiere alle esposizioni d’ortensie, alla banda musicale, ai cimenti folkloristici; dall’asilo alla scuola, all'ospizio dei vecchi; dal nuovo villaggio sino alla miniera a mezzo servizio, TUTTO in paese, compresi i “pub”, venne ribattezzato o intitolato al personaggio emblematico di Bangwanilla. Qualche maligno insinuò che fosse un modo per esorcizzarne la memoria, qualcun altro che fosse piuttosto un rito per propiziarsela, in ogni caso l’assessore anziano Vellamere ed il reverendo Morrisdale avevano deciso, a suo tempo, e per il bene della maggioranza, di creare a forza una leggenda anzichè affrontarne una scaturita dalle circostanze. E vediamone gli sviluppi. tutt’oggi, a nord di Sheffield, ci sono due colline che si fronteggiano: una nera di carbone e una gialla d’ortensie. A guardar più d’appresso sulla prima c’è un cannone e sull’altra piove merda. Ma, in mezzo, c’è un drago variopinto il cui cranio talvolta matura il dubbio che un fachiro sia sul punto d’uscire dal tumulo pronto a ribaltare, con un sorriso, la fondatezza di questa osservazione. Perciò: floricultori, occhio ai “girasoli”! ‘chè, senza preavviso, potrebbero tornare, in barba a tutte le aspettative, quanto meno a colorarsi d’azzurro...