BANGWANILLA
BHILLA
A
nord di Sheffield, in vetta a una collina, c’è un cannone. O
meglio, a guardar più d’appresso, non è nè una collina e nè un
cannone, ma una duna di carbone con in cima lo scivolo d’un
convogliatore. Il che, comunque, non deve scoraggiare dal vedere
nelle cose ciò che si vuoi vedere, anzi! E se questo “ciò”
dovesse mai essere un cannone, per un villaggio posto casualmente
nella sua traiettoria, questa potenziale insidia potrebbe sempre
sortire delle conseguenze. Chi tuttavia ha pratica, anche
superficiale, d’insediamenti in zone minerarie, sa che, da lontano,
essi appaiono, con i loro tetti a schiera bigi ed appuntiti, simili a
delle creste sdentate in groppa a un drago altrettanto decrepito e
fuligginoso. Ed è dunque sulla scorta di questa immagine, che la
misura della minaccia risulterebbe un tantino eccessiva. Ma, d’altro
verso, se s’accetta il punto di chi vede” un cannone in uno
scivolo, si può ben comprendere come persino uno scivolo da carbone
possa rappresentare un pericolo per qualsiasi povero diavolo di
villaggio che volesse atteggiarsi a drago, anche solo per un
malinteso senso delle proporzioni. In caso contrario gli opposti
punti di vista verrebbero reciprocamente ad elidersi, con buona pace
di qualunque osservatore e d’ogni tipo d’indagine.
Vivendo
quindi in bilico fra le tesi di “apparire o essere in realtà”,
gli abitanti di quel villaggio (che in effetti esiste) godevano del
privilegio del dubbio molto più “acutamente” di qualsiasi
filosofo, ove l’avverbio adombri il significato di sofferenza più
che quello di mera speculazione. Ed è solo in rapporto a codesta
scelta che si potrà discriminare fra le due tendenze con qualche
successo, senza incorrere d’esprimersi a vanvera per tante pagine.
In
tutti i modi, a ‘chè la “dolorosa reazione” avvenisse,
occorreva si verificasse un evento, e l’evento, per la gente del
villaggio, doveva assumere tale natura da fugare oii perplessità
sulla sua ambigua funzione; diversamente lo scivolo sulla duna si
sarebbe posto a scaricar cannonate, e chi allora avrebbe osato,
dubbioso o meno, arrischiare d’infrangere l’unanimità?! Retorica
a parte, uno lo si trova sempre, e Bangwanilla Bhilla era fra quegli
eletti. modesto commerciante indù, immigrato da vent’anni, con una
grande bottega ed un giro d’affari inversamente proporzionale alle
ambizioni del negozio, aveva come clienti dei semplici minatori che
non potevano, di fatto, arricchirlo. Ma a Bangwanilla,evidentemente,
per definirsi prospero, bastavano tante scansìe colme di merce
inutilizzata. E, daltronde, scapolo e privo di commessi, uno scambio
più intenso, non avrebbe potuto nemmeno pensare di gestirlo, tanto
gli valeva rifarsi col pragmatismo dei metri quadrati della sua
bottega: ben 250!
Tutti
gli altri poveracci fuori! a rodersi col naso alle vetrine.
Bangwanilla Bhilla, certi giorni, lo si vedeva sfilar su e giù, in
rivista agli scaffali, solo ed impettito come un sergente dei Cepoys.
E nel villaggio nessuno che azzardasse un: “Chi si contenta...”
dal momento che, nel confronto, le loro case non superavano il terzo
di quella metratura. Bangwanilla, autonomamente impegnato a
realizzare il proprio karma, e ignaro d’influenzare quello altrui,
procedeva con elegante noncuranza, direi persino con civetteria; e
neppure ci si poteva appellare al colore della pelle per
giustificarne l’invadenza, quando gli stessi pozzi di carbone
cooperava— no durante la settimana a pareggiare le diverse
sfumature con una tinta uguale per tutti. Ma ‘la festa, anzichè
stemperarsi il corpo nella meditazione, Bangwanilla pareva ribadire
il diritto alla diversità, tornando a dipingere e ridipingere
rosa—confetto la facciata del suo negozio, mentre tutt’intorno la
crosta delle abitazioni anneriva nello squallore. Sono atteggiamenti
che, in buona o cattiva fede, farebbero sorgere dubbi anche a un
santo; come non condividere dunque l’inquietudine dei compaesani
nei suoi riguardi? Tuttavia Bangwanilla, nonostante la coerenza nel
paradosso, era lungi ancora dall’impersonare la minaccia del
cannone sulla collina, o almeno, sino a dopo quella fatidica notte...
e
giacchè gli eventi, come i sogni, si riscontrano sempre a cose
fatte, quella mattina, al risveglio, tutto il villaggio s’accorse
d’essere stato irrorato da un liquido denso, grasso e
giallognolo... Che da quelle parti piovesse spesso non era una
novità, anzi, la cosa non sollevava il benché mini:io interesse.
Che poi, in alcune parti del globo, piovesse addirittura sabbia del
deserto od acido dalle ci— miniere, lo si poteva leggere
tranquillamente sui giornali o vedere alla televisione, ma tutto
s’esauriva in qualche piagnisteo sulle sorti dell’umanità. Che
invece potesse verificarsi così a nord, lungi dal consueto
pregiudizio meridionale, colse tutti di sorpresa piuttosto allarmati.
Subito si congetturò di capziose correnti ascensionali, di
stravolgimenti atmosferici dovuti alle tempeste magnetiche, alle
centrali atomiche, agli esperimenti nucleari, al conseguente
mutamento del clima che ribaltava l’orientamento dei venti, quando:
“dove
tirasse il vento” rimaneva una delle poche certezze di stabilità
su quell’isola. Ci fu persino chi addebitò il fenomeno
all’allineamento dei pianeti in corso in quel periodo. Tutte
ipotesi che, suscettibili di differenze, conservavano peraltro un
certo quid d’attendibilità e, quel che più conta, una qualche
singolare propensione ad esaudirsi in se stesse, favorendo di
trascurarne altre magari più intriganti. A tanto conduceva, ormai,
la comunanza psicologica di quegli abitanti se, fortunatamente per
loro, non avessero potuto annoverare, in Bangwnilla Bhilla,
l’ispirato profeta, il corifeo dell’apparente contraddizione.
“Per me, è sterco...’ sentenziò appena messo fuori il piede
“... diamine! non sentite che puzza?!”.’ Evitò d’aggiungere
altro, tappandosi le narici. in verità, di puzza, non se ne sentiva,
ma bastò a scatenare, lo stesso, un vespaio. E, con quell’odoroso
messaggio in bocca, gl’insetti si sguinzagliarono per i vicoli,
salendo e calando ogni rampa di scale, ronzando e zigzagando per i
sottotetti e gli scantinati dei “pub”, dove neppure l’effluvio
di quella notte avrebbe potuto scalzare l’aroma della birra scura,
sollevando ovunque moti d’indignato disgusto. Dopodichè la morale
collettiva s’evidenziò nella mozione d’ordine per bocca
dell’assessore anziano Vellamere: “Che possa piovere anche latte
cagliato od olio rancido passi, ma per nessun stramaledetto indù si
deve o si dovrà accettare che qui cada, sia
caduta
o stia per cadere, dell’acqua di merda. E’ chiaro?!. Era chiaro
per tutti e, quindi, presero a far finta di nulla. O meglio, non
proprio di nulla, qualcosa per confondere le certezze continuarono a
confidarsi, ma riguardava principalmente l’aspetto della
bottega-confetto che, così butterata, pareva affetta da foruncolosi.
Che potesse anche rivelarsi contagiosa? Bangwanilla, quasi presago,
intanto non tralasciava di ridipingerla, incurante che la pioggia
perdurasse a cadere regolare, di notte e di giorno, una o due volte
‘la settimana. Di conseguenza, quel colorato “distinguo”, non
s’interrompeva quasi mai, impegnandolo a tempo pieno e non più
solo ‘la domenica. Ma l’indù non dava seguo di dolersene. Del
resto, per ripararsi durante il lavoro alla facciata, aveva
escogitato di ripiegare all’insù le stecche di un grande ombrello
azzurro, sicchè il liquame, evitando di ricolargli addosso, si
raccoglieva nella conca cerata come lo zabaglione fumante in una
ciotola. E la gente, vedendolo armeggiare alle pennellesse o, più
semplicemente, passeggiare per il paese con quel paracqua rovesciato
in testa, scuoteva le patacche dal proprio domandandosi fin dove
sarebbe giunta l’improntitudine dello straniero. E la fanghiglia,
intanto, s’accumulava viscida sull’asfalto. La Giunta (ed era la
seconda volta che intervenivano le autorità) emise un’ordinanza
che imponeva ai residenti d’arginare gli striminziti giardini
avanti alle case, in modo che:
“...
la
terra delle aiuole, durante la brutta stagione, non smottasse
sulla
pubblica via”. Poi provvide a far sistemare delle passerelle di
traverso ai vicoli, con il pretesto che la rete fognaria, ereditata
dalla precedente Amministrazione, dovesse essere totalmente
riappaltata e corretta. Ma il fatto che la parola: “merda” fosse
puntigliosamente bandita in paese dall’ufficialità dei discorsi,
non impediva che, fuori le mura, le notizie si propagassero. In
breve, dalle Autorità delle contee limitrofe fu steso una specie di
cordone sanitario intorno al villaggio, fatto di tanti piccoli
divieti, pseudo proibizioni, definite eufemisticamente: “Consigli
pratici per i forestieri” ove in parole povere s’ammoniva, non
solo a non fermarsi, ma persino a transitare da quelle parti. Al
punto che, ufficialmente, si chiese al “Miner’s Football Club’
di far disputare l’omonimo torneo di calcio in campo neutro per
tutta la stagione. Si può immaginare con quale sarcasmo venissero
accolti, dai tifosi avversi, i colori d’una tale squadra, per cui,
le umiliazioni in serie, consigliarono di ritirarsi per quell’anno
dalla competizione, fidando nella clemenza del cielo per quello a
venire. Bangwanilla Bhilla non era certo un tifoso di calcio (nè,
tanto meno, un rivoluzionario) eppure, con una sola parola al momento
giusto, era riuscito ove persino gli Unni nell’ultimo conflitto
avevano fallito, e cioè a “stoppare” una delle più gloriose
tradizioni dell’isola. Tuttavia, se in quel frangente lo spirito
della comunità aveva toccato il fondo, dall’altra si doveva
registrare, imprevedibilmente, prima l’ascesa e poi il rigoglio
della coltura d’ortensia (liydrangea hortensia). Non che quelle
piante nel nord fossero considerate alla stregua di persone
giuridiche ma, data la dif fusione in ogni aiuola e valutando il
numero dei giardini, un posto di rilievo nella gerarchia sociale
dovevano pur averlo; specie con una qualità, quella azzurra che, da
sola, legittimava quel poco di colorito funebre sulle guance delle
case. Un poco passi, ma che, da livido, quell’incarnato si fosse
fatto d’improvviso giallo sgargiante, pareva una trasformazione un
secondo troppo rapida per non essere sospetta; senza contare le
dimensioni del maquillage che, da normale corolla, s’era dilatato
alla misura d’un girasole. “Troppa acqua, quest’anno...
balbettò un benpensante guardando desolato la sua pianta. “Troppo
concime...” gli fece eco Bangwanilla indicando, con un sorriso
disarmato, il cielo caliginoso, prima di congiungere le mani
nell’inchino e defilarsi in bottega. •qualcuno, non senza
ragione, pronosticò che quella peste avrebbe infettato le
istituzioni una dopo l’altra. In consiglio comunale Bangvvanilla
non vi aveva accesso, ma le sue pragmatiche sortite ormai circolavano
quasi fossero all’ordine del giorno, e una di queste riguardava il
possibile beneficio che, dagli eccessi di vitalità delle ortensie,
si sarebbe potuto ricavare. “... e dunque, visto come vanno le
cose...” aveva suggerito Bangwanilla: “...perchè non “firmare”
quella specifica qualità col nome del villaggio, farne una specie
selezionata, ed esportarla baldanzosamente oltre i confini?”.
“Esportare quei fiori di merda col... col nostro nome??” gracchiò
l’assessore anziano Vellamere sporgendosi pericolosamente dallo
scranno:
“....
ma è inaudito! Piuttosto si esporti quel fottuto derviscio al suo
paese in una botte di chiodi!”. L’assessore giovane Iranmong gli
ribattè che, pur nell’apparente provocazione, qualcosa della
proposta si poteva utilizzare, sostituendo, ad esempio, il nome del
villaggio con quello dell’indù, ed un’ortensia “Bangwanilla
Bhilla” gli sembrava tutto sommato un’appropriata risposta
all’impertinenza. Si mise ai voti e l’inaudito passò. Mentre
l’assessore anziano Vellamere si rifugiava al “pub” a smaltire
lo scorno, attorno a lui il resto degli avventori brindava alla
possibilità d’integrare, la vita grama in miniera, con la più
rosea attività del floricultore e, nella prospettiva del guadagno,
persino di riscattarla. “Scambiare un onorato mestiere per quattro
soldi di merda...” ammoniva intanto l’assessore anziano:
“...
vale quanto rimangiarsi l’identità... e poi, che uomini
diventereste con quelle froce d’ortensie appese agli orecchi?!”
ed ammiccava all’indù. ìa la maggioranza, bene o male, legifera
e, poco a poco, nonostante i mu.i, ebbe inizio al villaggio una sorta
di riconversione a dispetto della minacciata virilità. Gruppi di
minatori, prima esigui poi, sulla scorta dei risultati, man mano più
numerosi e intraprendenti, mutarono dall’oggi al domani colore di
pelle abbandonando i pozzi per l’aria aperta. Di fatto la
coltivazione delle ortensie—girasole si spandeva sulla macchia
d’olio e, come in Provenza, già qualche improvvisato Van Gogh si
accingeva a riprendere la scena con in testa il tipico copricapo,
adottato dai floricultori, sulla falsariga dell’ombrello di
Bangwanilla: tesa larga rivolta all’insù con banda di scolo sul
retro. E alcuni eletti di loro, più audaci nella sperimentazione,
già teorizzavano di lasciare la tela alle intemperie: ‘...
onde
il soggetto dipinto acquisisca un bagno di salutare espressività”.
In effetti la pioggia continuava ad “ammucchiarsi” fino a
sfiorare i davanzali a piano terra, e altro ci voleva che recintare i
giardini a suon d’ordinanze! Bangwanilla, dal suo ambito, non
trascurava di scavare e sgomberare le aiuole e di ridipingere la sua
facciata, senza curarsi del tumulo che gli cresceva addosso e da cui
emergevano, provvisoriamente, solo l’ultimo piano ed il tetto della
bottega. A un primo sguardo, l’esito era pari a quello d’uno
“stupa” rosa—confetto su di una collina dissenterica,
punteggiata da croci runiche. Se, tuttavia, grazie all’indù, sulla
cresta del drago era spuntato tua dente d’oro, al fenomeno della
pioggia si doveva imputare la dissolvenza del resto dello scheletro.
In consiglio comunale, infatti, proprio in cuei giorni, si era
pervenuti alla contrastata risoluzione d’evacuare il villaggio
sacrificandolo all’esuberanza delle ortensie, e di ricostruirne uno
nuovo (ricorrendo al fondo Calamità nazionale) più lontano e al
riparo.., fuori di portata del cannone?? La traiettoria, non poteva
sfuggire a nessuno, era quella dello scivolo, ma nessuno in paese
avrebbe accettato ormai di precludersi sia il tronco che la linfa del
nuovo benessere; e si optò , quindi, nel dubbio, di tagliare con le
radici anzichè chiudere con la miniera e lo scivolo sulla duna.naturalmente tutti, in consiglio, s’erano ben guardati
dall’ammettere, l’un l’altro, questa relazione. “Se la
pioggia continua a cadere...” generalizzarono: “... non spetta a
noi definirne le cause. A noi, come amministrazione, tocca solo
regolarci di conseguenza”. Ragionamento ineccepibile, suffragato
inoltre dall’evidenza che lo scivolo d’un convogliatore non
poteva funzionare da cannone con l’innesco d’una parola magica.
Bangwanilla (che non era un mago) non si dava pensiero di rimaner
isolato sulla collina con la sua versione e, instancabile, scavava il
solco che lo separava dagli altri, o per meglio dire, delegava alla
pioggia il compito d’approfondirlo. Non abbandonando la sua
bottega, in breve, egli scomparve in basso con essa, impegnato
com’era a liberarne le fondamenta dal concime. Ora n’emergeva,
tramite una scala a pioli, solo per svuotare la gerla di cerata
azzurra che si caricava sulle spalle, ed è forse nell’apparente
incongruenza fra l’accumulo del liquame ed il suo sgombero, che ne
sortiva quella specie di bradisismo negativo della costruzione.
L’assessore anziano Vellamere, che aveva rischiato le coronarie per
venire a constatare di persona, sporgendosi sul baratro, si sentì
apostrofare da Bangwanilla che, per “capire”, non bastava
risalire la collina, ma occorresse calarsi al fondo con lui.
Imprecando, l’assessore lò piantò in asso; e del resto più
nessuno, da tempo, scendeva nel pozzo ad acquistare merce imbalsamata
sulle scansìe, e neppure l’indù l’avrebbe preteso, quando
persino lui, di tanto in tanto, era costretto a rifornirsi con un po'
di
riso al nuovo villaggio per sopravvivere. Qui, fra decine di negozi
inghirlandati d’ortensie, s’aggirava gradito come un cane in
chiesa, rispondendo ai rari cenni di saluto col consueto sorriso,
senza dar peso alla circostanza che spesso, al suo passaggio, quei
pochi ben educati arricciassero ostentatamente il naso. Nonostante
non olezzasse affatto, Bangwanilla, la puzza, l’aveva denunciata,
ed era naturale che, arrivando da lassù, se la portasse appresso.
Non lo era altrettanto, invece, che la sentisse chi la negava per
principio, fosse stato pure per necessità. Un’anima più dogmatica
delle altre, gli fece recapitare l’ingiunzione di sottoporsi alla
doccia pubblica, impiantata per i floricultori alle porte del
villaggio. Lui rispose, cortese ma risoluto, che le abluzioni
l’eseguiva puntuale al tramonto davanti a Krishna e (qui calcò
sulle parole) che, se volevano decontaminarsi davvero, mettessero
prima, e una volta per sempre, la museruola a quell’osceno cannone
sulla collina. Poi chiuse bocca e bottega e non uscì più. Però
l’innesco aveva funzionato ed il petardo deflagrò come una mina.
Investendo le case, le divise in fazioni. Sotto l’onda d’urto, le
varie corporazioni, vedendo fondersi in un “unico macroscopico”
tutte le incertezze fino ad allora accumulate, e presaghe di finirne
schiacciate con i loro interessi, cercarono di sottrarsi alla
responsabilità di decidere a quale soluzione dare la precedenza,
mentre lo spauracchio sulla duna brandeggiava minaccioso sulla più
aspra e frantumata polemica degli ultimi armi. Per salvare il
salvabile e ripristinare una parvenza c’unanimità, l’assessore
anziano Vellamere, spalleggiato dal Pastore, reverendo Lorrisdale,
propose drammaticamente di dare, una volta per tutte, un corpo alle
paure ed una solidale giustificazione alla mossa per sconfiggerle.
Convocato il consiglio straordinario e aggregata la maggioranza più
numerosa della loro storia, si pervenne, bene o male, ad. un’unica
“delibera. Poi, sull’esempio del passato, l’esito del voto che
ne seguì fu tenuto rigorosamente segreto, ‘chè nessuno venisse a
dubitare, in paese, del proprio rappresentante. Anzi, a sorte, si
giunse a designare un solo membro della giunta a prenderne visione e
ad agire senz’altro limite che il proprio arbitrio, tenendo
deliberatamente all’oscuro l’assermblea, sia del momento che del
modo d’intervenire. In sostanza, una delega in bianco per uno
sporco lavoro nero. L’incaricato tirò un sospiro di rassegnazione,
e si preparò ad assolvere il mandato nell’assoluto riserbo...
Una
notte, non a caso, di liquame torrenziale, quattro potenti scavatrici
color del fumo, con quattro incappucciati ai comandi, cingolarono la
collina delle ortensie dai quattro punti cardinali. Giunte in
prossimità della vetta ad insegne coperte e luci spente, le accesero
all’unisono sull’obiettivo, attaccando e sospingendo nel contempo
le tonnellate di concime, accumulate da Bangwanilla, oltre l’orlo
della voragine, e precipitandole in basso sul tetto della bottega.
Nell’arco di pochi minuti il pozzo fu colmo e la contraddizione
sanata. Poi, altrettanto rapidamente, sferragliarono a valle
dileguandosi nel buio...
L’indomani
all’alba si fece circolare la voce che Bangwanilla era rimasto
vittima di una frana colossale, con tutte le sue cianfrusaglie. Per
la cronaca, nessuno manifestò perplessità. Già alle nove di
mattino un lungo serpente di curiosi si snodava sul golgota. Con in
testa l’assessore anziano Vellamere che, ansimando, sembrava
rallentare a bella posta l’andatura. Verso il mezzodì, sempre
sotto un diluvio unto e pesante, il Pastore reverendo Morrisdale, il
medico Tarren e l’autorità di polizia Stuart, riuniti in consulto,
constatarono l’inutilità di poter recare in tempo qualsiasi aiuto
al malcapitato. E, dopo le orazioni e i rilievi di rito, passarono le
consegne all’assessore Vellamere che comunicò agli astanti
d’interpretarne il pensiero sancendo che quel cocuzzolo restasse la
dimora definitiva di Bangwanilla, e che non lo si dovesse disturbare
oltre con sacrileghe riesumazioni.
Quindi, chiuso l’ombrello, si piegò, non senza fatica, a
trapiantare sul concime un virgulto d’ortensia, imitato dagli altri
notabili e, via via, dal resto dei presenti. Alle sette di sera ebbe
termine anche il pellegrinaggio e, ad una parte del nuovo
insediamento, parve scemare persino l’intensità della pioggia...
All’episodio
di quella notte si ebbe una coda istituzionale così connotata: ogni
ente, concorso o manifestazione pubblica, dalla squadra di calcio
(fiore giallo su fondo nero) al torneo regionale; dal teatro comunale
alle recite della filodrammatica; dalle fiere alle
esposizioni
d’ortensie, alla banda musicale, ai cimenti folkloristici;
dall’asilo alla scuola, all'ospizio dei vecchi; dal nuovo villaggio
sino alla miniera a mezzo servizio, TUTTO in paese, compresi i “pub”,
venne ribattezzato o intitolato al personaggio emblematico di
Bangwanilla. Qualche maligno insinuò che fosse un modo per
esorcizzarne la memoria, qualcun altro che fosse piuttosto un rito
per propiziarsela, in ogni caso l’assessore anziano Vellamere
ed il reverendo Morrisdale avevano deciso, a suo tempo, e per il bene
della maggioranza, di creare a forza una leggenda anzichè
affrontarne una scaturita dalle circostanze. E vediamone gli
sviluppi. tutt’oggi, a nord di Sheffield, ci sono due colline che
si fronteggiano: una nera di carbone e una gialla d’ortensie. A
guardar più d’appresso sulla prima c’è un cannone e sull’altra
piove merda. Ma, in mezzo, c’è un drago variopinto il cui cranio
talvolta matura il dubbio che un fachiro sia sul punto d’uscire dal
tumulo pronto a ribaltare, con un sorriso, la fondatezza di questa
osservazione. Perciò: floricultori, occhio ai “girasoli”! ‘chè,
senza preavviso, potrebbero tornare, in barba a tutte le aspettative,
quanto meno a colorarsi d’azzurro...